P4C… quando gli acronimi acquistano vita propria
P4C, “Philosophy for children”, è una “comunità di ricerca”, un ambiente sociale e cognitivo contraddistinto da particolari qualità, non semplicemente filosofia per bambini.
L’acronimo P4C proviene da “Philosophy for children”, ma non indica una “Filosofia per bambini”. Per analogia, l’espressione “Ho acquistato una FIAT” non vuol dire – è ovvio – che ho acquistato la “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. È questo il destino di certi acronimi, ossia di indebolire il significato originario per diventare segni esposti a un’odissea di possibili usi e a una imprevedibile storia di significazioni. Allora, qual è il significato da attribuire alla sigla P4C a partire dalle pratiche di formazione in cui è di fatto messa in gioco in circa 300 scuole italiane e in chissà quante altre sparse in tutto il mondo? In estrema sintesi si tratta dell’esperienza di riflessione in stile filosofico promossa e alimentata all’interno di un processo di trasformazione delle dinamiche relazionali di un gruppo. Il punto di arrivo di queste trasformazioni è la “comunità di ricerca”, un ambiente sociale e cognitivo contraddistinto da particolari qualità, quali:
• Informalità prevalente del setting;
• Assenza di etero-valutazione e di standard cognitivi prefissati;
• Autoreferenzialità;
• Assenza di riferimenti e di dipendenze rispetto ad una disciplina scolastica;
• L’esperienza (presente e passata) come fonte principale dei contenuti della ricerca;
• Decentramento e distribuzione a tutta la “comunità” di funzioni e responsabilità inerenti ai percorsi formativi;
• Relazione circolare tra conoscere e agire, tra teoria e pratica.
La “P4C” nasce nei primi anni ’70 del secolo scorso dall’iniziativa del filosofo statunitense Matthew Lipman. Egli, docente di logica alla Columbia University ma anche attento conoscitore di Dewey, intende mettere alla prova nelle scuole di base americane un principio pedagogico ben radicato nella tradizione educativa dei maggiori paesi europei, in particolare l’Italia e cioè che il valore della filosofia nella formazione è insostituibile e prezioso. Basti, per questo, pensare al pensiero di Giovanni Gentile, ferme restando le indiscutibili differenze.
Pur echeggiando così un leitmotiv della bildung continentale, Lipman lo interpreta, però, in chiave assolutamente innovativa. Deweyanamente pone in primo piano il nesso tra educazione e democrazia e assume la filosofia come orizzonte proprio dell’esperienza “politica” in un senso che evoca le origini stesse della pratica filosofica nella polis di Atene. In una democrazia non solo formale, i cittadini hanno il diritto-dovere di tenere aperta la riflessione corale sulle questioni di fondo: di senso, di orientamento e di valore. Cosicché la “comunità di ricerca”, che si auto-istituisce e si autoregola, è il contesto vitale in cui la conoscenza viene rielaborata, co-costruita, valutata sulla scorta della logica delle buone ragioni e continuamente sfidata dall’esperienza, messa alla prova nella rete delle relazioni e utilizzata per la soluzione di problemi realmente sentiti e non surrettiziamente indotti.
In contrasto con la prevalente uniformità delle geometrie istituzionali funzionali al sapere tendenzialmente decontestualizzato delle discipline scolastiche, nella “forma di vita” che la comunità di ricerca è, si fa esperienza di una riflessione che investe questioni avvertite come problematiche, che non risparmia premesse implicite ed ecologie mentali irrigidite; una riflessione che si indirizza anche alle sue stesse procedure per ridefinirle metacognitivamente e raffinarle consapevolmente.
In altre parole, fare P4C a scuola vuol dire sospendere (mediamente per un’ora alla settimana) l’organizzazione dell’educazione formale, fluidificare i dispositivi istituzionali di controllo, rinunciare alle garanzie di legge, azzerare le aspettative derivanti da ruoli prestabiliti. Una di queste aspettative, per esempio, suona così: “Siccome io docente sono qui per insegnare, tu alunno devi apprendere”. Non credo ci sia auto-legittimazione più inconsistente di questa in una scuola che vorrebbe essere non selettiva e non autoritaria, la quale dovrebbe farsi carico, innanzitutto, di accertare e, magari, stimolare l’interesse per l’apprendimento.
Oggi, nella società sempre più multiculturale in cui siamo destinati a vivere, volenti o nolenti, le istanze dell’educazione devono avere la priorità rispetto a quelle dei sistemi scolastici e delle loro impalcature burocratiche, delle rigide classificazioni. Un rinnovato senso della bildung deve prevalere sull’apparente utilità dei saperi strumentali, che siano le classiche tre “R” le più moderne tre “I” o altre lettere che il mercato vorrà suggerire.
Rispetto ai bisogni formativi, visti nell’ottica della globalizzazione, la P4C propone e realizza obiettivi che hanno di mira il cittadino dei mondi multipli in cui bisogna imparare a vivere. Per chiudere, allora, se proprio vogliamo usare le lettere dell’alfabeto per progettare curricoli, la “P4C” può significare anche la pratica delle 4 “C”: 1) Comunità, 2) Contesto, 3) Cooperazione, 4) Comprensione.
Per approfondire:
• http://www.filosofare.org/p4c/checos’%E8.htm
Antonio Cosentino